Nei precedenti articoli, abbiamo detto che il coach ‘allena’, ‘supporta’, ‘motiva’ e che metaforicamente potrebbe essere paragonabile ad un cocchiere che nel passato guidava una carrozza, ma che ad oggi accompagna il cliente da un punto ad un altro, ovvero da dove è a dove vuole andare e a dove vuole arrivare.
Ma, cosa fa precisamente un Coach?
Durante ciascun incontro il Coach ascolta, supporta, osserva, fa domande, detiene il processo di Coaching. Cosa vuol dire “detiene il processo di Coaching”? Significa che il coach in quanto professionista è colui che durante una sessione supporta il cliente (coachee) nel raggiungimento dell’obiettivo che ha stabilito nella prima sessione (sessione 0 o intake). Una volta fissato l’obiettivo sarà il coachee a lavorare su se stesso cercando le proprie risorse al fine di arrivare al risultato atteso. Il processo di coaching altro non è che un processo di apprendimento nel quale il coachee si illumina (insight) nel momento in cui tramite i propri strumenti emotivi, esperenziali e creativi arriva alla piena consapevolezza delle proprie azioni. In tutto questo il coach è colui che, quasi camminando in punta di piedi, alimenta positivamente il cammino di potenziamento del coachee.
Sulla base di ciò (passo tratto da ICF – International Coach Federation), le responsabilità del coach sono:
Una delle competenze principali del coach è quindi creare un’interazione positiva con il coachee inducendo il coachee a divenire proattivo.
Ed è proprio qui che nasce la diatriba, a volte la confusione, delle differenze del coaching con altre discipline come counseling, consulenza, psicologia/psicoterapia, mentoring.
Per rendere chiaro delle differenze del coaching con le altre discipline, mi piace utilizzare la metafora dell’imparare ad andare in bicicletta per la prima volta. Come impareremmo ad andare in bici se a spiegarcelo fossero un counselor, un consulente, uno psicologo/psicoterapeuta oppure un mentor?
Counselor: probabilmente ci sosterebbe, ascolterebbe i nostri problemi ed infine ci darebbe dei consigli. Praticamente, ci insegnerebbe lui stesso ad andare in bici dicendoci come fare.
Consulente: ci spiegherebbe il funzionamento della bici, verificherebbe lui stesso se la bici sia a posto, infine, ci suggerirebbe come pedalare meglio.
Psicologo/Psicoterapeuta: magari indagherebbe se per caso da bambino il fratello ci rubava la bici o se nostro padre per punizione non ce ne abbia mai comprata una.
Mentor: prenderebbe la bicicletta dando una dimostrazione pratica di come si guida la bici.
Ora, come impareremmo ad andare in bicicletta se a spiegarcelo fosse invece un coach?
Ci domanderebbe con molto probabilità: “Dove vuoi andare?”, “Che cosa ti attrae laggiù?”, “Cosa significherebbe per te raggiungere quella meta?”.
Una sessione di coaching, infatti, è un perfetto connubio di domande aperte, metafore, reazioni emotive, voli verso il futuro e non ancore rivolte al passato. L’ascolto diviene così il vero strumento di indagine, come la presenza durante l’intera sessione e il tempo, come proiezione necessaria a favorire l’apprendimento. La relazione che si andrebbe ad instaurare tra coach e coachee, un’interazione consapevole che fortificherà il coachee.
Detto ciò credo sia utile dire che non esiste una disciplina migliore di un’altra. Esistono solo sottili e differenti tipologie di approccio. Importante è capire il fine della disciplina e l’utilità. A decidere sarà il cliente, paziente, coachee che in base alle sue esigenze o all’obiettivo che egli stesso vorrà raggiungere, oppure al problema che desidererà risolvere piuttosto al consiglio da chiedere, deciderà quale percorso seguire.
Credo ci sia un fondamento universale che valga la pena non dimenticare mai e cioè di quanto la propria consapevolezza, nella vita privata come in quella professionale, sia determinate nel raggiungimento di qualsiasi traguardo.
Valentina Licciano
Psicologa – Formatrice – Coach
“Se le cose accadono è perché, fondamentalmente, siamo noi a farle accadere.”
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