L’articolo 5 del decreto legge 34/2019 non ha solo modificato la disciplina dei benefici fiscali applicabile ai soggetti c.d. “impatriati” aumentandone la durata e l’importo, ma soprattutto è intervenuto allargando la platea dei beneficiari. Prima delle modifiche normative efficaci da maggio per i lavoratori trasferiti in Italia dal prossimo anno, l’articolo 16 del D.Lgs. n. 147/2015 individuava due tipologie di lavoratori beneficiari (subordinati e liberi professionisti).
La prima, regolamentata dal comma 1, richiedeva che il soggetto, oltre a mantenere la residenza in Italia per almeno due anni, fosse stato residente all’estero per almeno 5 anni; il lavoratore per essere impatriato doveva poi lavorare prevalentemente in Italia per una azienda italiana o nel contesto di un contratto di distacco con una società estera (controllante o controllata dall’azienda italiana nel cui interesse il soggetto svolgeva l’attività lavorativa) e rivestisse un ruolo direttivo o, ancora, fosse in possesso di un’elevata qualificazione professionale. Dopo le modifiche normative del decreto crescita è sufficiente che i neo-residenti abbiano risieduto all’estero nei due periodi di imposta precedenti il trasferimento in Italia e che lavorino prevalentemente nel nostro paese.
La riduzione del periodo di residenza all’estero richiesto e, soprattutto, il fatto che non sarà più necessario ricoprire ruoli direttivi in Italia comporterà un probabile maggior ricorso a questa fattispecie rispetto a quella regolamentata dal comma 2 dell’articolo 16 del decreto internazionalizzazione, in alcun modo modificato dal decreto crescita. Come si ricorderà tale comma richiede che i “candidati”, per godere del beneficio, abbiano conseguito una laurea o titolo specialistico, mantengano la residenza lavorando in Italia per almeno due anni, dopo avere lavorato o conseguito un titolo di studi all’estero negli ultimi 24 mesi. Gli stessi possono anche non essere cittadini comunitari, a patto che lo stato straniero abbia siglato un accordo con l’Italia contro le doppie imposizioni o almeno per la trasparenza delle informazioni fiscali.
La nuova versione del comma 1 elimina alla radice la necessità delle analisi e delle verifiche relative alle situazioni più complesse (prese in esame dalla Risposta 45/2018 dall’Agenzia delle Entrate) dei dipendenti distaccati all’estero e rientrati in Italia. Inoltre, poiché il nuovo comma 1 richiede esclusivamente l’acquisizione della residenza in Italia del lavoratore dopo un periodo di residenza all’estero di almeno due anni, nonché il fatto che la prestazione lavorativa sia svolta prevalentemente in Italia, si ritiene che potranno usufruire dell’agevolazione anche i soggetti che svolgeranno in Italia la loro attività lavorativa alle dipendenze di datori di lavoro estero senza stabili organizzazioni in Italia purché mantengano la residenza fiscale in Italia per almeno 2 anni dall’inizio dell’agevolazione.
Le nuove norme entreranno in vigore per chi trasferisce la propria residenza fiscale in Italia a partire dal 2020, ma il comma 5-ter introduce alcune precisazioni che possono fin d’ora risolvere alcune delle criticità riscontrate nei primi 4 anni di applicazione della norma e generate dal concetto di residenza fiscale alla luce della normativa italiana, di quella dello stato di provenienza, nonché di quanto previsto dall’articolo 4 del modello OCSE delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. Si nota poi che, con riferimento ai cittadini italiani già iscritti nell’anagrafe della popolazione residente (APR), dal 2020, la verifica del biennio di residenza fiscale estera sarà stabilita non esclusivamente sulla base del nostro ordinamento (che prescrive, sempre, l’iscrizione all’AIRE e la cancellazione dall’anagrafe del comune italiano di residenza), ma anche da quanto risulterebbe dall’applicazione delle convenzioni internazionali, spesso legate a condizioni meno ‘formali’ come l’abitazione principale e il centro degli interessi vitali.
Per chi invece è rientrato in Italia fino alla fine del 2019 senza essersi mai iscritto all’AIRE, la norma prevede una sorta di sanatoria, garantendo i benefici previsti dalla previgente versione (massimo 5 anni di non concorrenza al reddito del 50% dei redditi di lavoro) per i periodi di imposta già soggetti ad atti impositivi ancora impugnabili o già oggetto di controversie o, ancora, per i periodi di imposta ancora nei termini di accertamento (da 5 a 7 anni) purché i lavoratori, nel periodo precedente al loro rientro in Italia, siano stati residenti fiscalmente in un paese estero ai sensi di una convenzione internazionale. Sono esclusi da questa sanatoria coloro che hanno già versato le imposte in misura piena in adempimento spontaneo.
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