Se si parte dall’assunto secondo il quale le università dovrebbero costituire il passaggio dal mondo della formazione a quello del lavoro, appare paradossale che negli ultimi tempi si stia sviluppando una tendenza, da parte degli atenei italiani, a dar vita ad un’ampia varietà di master post laurea: queste ulteriori specializzazioni, di fatto, assolverebbero a quel ruolo di ponte verso il mondo lavorativo che dovrebbe esser proprio del percorso di studio universitario.
Appare significativo, a riguardo, constatare che mentre il termine master’s degree viene usato nel mondo anglosassone per indicare il secondo grado accademico, corrispondente alla laurea specialistica, in Italia il termine master sia andato ad indicare un ulteriore grado di istruzione, segno che le università non sono state in grado di far “spiccare il volo” ai propri studenti. A questo punto risulta perverso che, anziché perfezionare la propria offerta formativa, queste ultime abbiano scelto la strada, più facile o forse più remunerativa, di incoraggiare i neolaureati a rimanere presso le proprie sedi per un nuovo ciclo di studi.
Ma quali sono le cause della diffusa impreparazione dei laureati italiani al mondo del lavoro?
Sarebbe sufficiente ascoltare per qualche minuto il disappunto degli studenti inoccupati per ottenere il risultato di un efficace brainstorming: “nozionismo”, “accademismo” e “cultura fine a se stessa” sono solo alcuni dei capi d’accusa che vengono rivolti alla formazione universitaria. Sulla testa del laureato in cerca di occupazione pende infatti la più bizzarra delle spade di Damocle; egli è costretto a trovar lavoro prima che il filo a cui la spada è appesa si spezzi (costringendolo ad invecchiare nella casa paterna o a trovar rifugio in un call center), ma nel farlo deve risolvere il più complicato degli enigmi: come trovare il suo primo impiego, quando ormai tutte le aziende richiedono esperienza pregressa?
Magari traboccante di “sapere”, ma spesso carente in quanto a “saper fare”, lo studente sente a questo punto l’esigenza di intraprendere un ulteriore percorso formativo dedicato all’esperienza e alla pratica piuttosto che alla teoria.
È per venire incontro a quest’esigenza che sono comparsi sul mercato master post laurea organizzati da strutture private con un forte radicamento nella realtà produttiva; molti di questi, caratterizzati da un’offerta qualitativamente elevata e orientati a sviluppare competenze operative, si sono attivati per fornire al laureato validi strumenti di apprendimento “pratico”, a partire dallo stage aziendale che costituisce parte integrante del percorso formativo.
Svariate sono inoltre le attività che questi centri di formazione hanno posto in essere per garantire agli studenti una preparazione adeguata al mondo del lavoro: tra quelle di maggior successo è possibile annoverare il project work, la formazione esperienziale ed i servizi di career service (si pensi al coaching e al counseling).
Se questa nuova offerta di formazione si giustifica con la sua domanda, rappresentando un’opportunità da cogliere per gli studenti inoccupati che vogliono acquisire competenze “pratiche”, il fatto che le università, anziché migliorare un’offerta inadeguata alla domanda di formazione, declinino quest’incombenza verso un ulteriore percorso formativo in sede (entrando in diretta concorrenza con istituti di alta formazione e business school) non può che mostrarsi come una lampante contraddizione. Un controsenso che rischia di acuirsi qualora anche questo percorso venga a deficere delle attività di apprendimento pratico e, in particolar modo, della garanzia di uno stage, rischiando di conferire al master i connotati di un’ulteriore laurea nozionistica.
Articolo Scritto da Giorgia Tribuiani (Master in Marketing Management 15° Edizione)
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